Quali sono i progressi sulla parità di genere a livello internazionale? E come sta evolvendo lo scenario italiano? Lo scopriamo con l’aiuto della consulente di carriera Sara Brogin, attraverso i dati dall’Osservatorio JobPricing in collaborazione con IDEM Mind the gap.
Com’è vista la parità di genere a livello internazionale?
L’edizione 2024 analizza i progressi verso la parità di genere in 146 Paesi.
Nel 2024, il divario di genere globale è stato colmato al 68,5%, 0,1 punti percentuali in più rispetto allo scorso anno e 0,4 rispetto al 2022. Al ritmo attuale di progresso, ci vorranno 134 anni per raggiungere la piena parità, tre anni in più rispetto alla stima dello scorso anno; non si è generata, quindi, l’accelerazione verso il raggiungimento della parità, anzi si è registrata una battuta di arresto.
Tra i paesi dell’UE il Paese migliore è la Finlandia, seconda al mondo dopo l’Islanda a pari merito con la Norvegia, con un punteggio pari a 87,5%, mentre l’Italia, con un punteggio di 70,3% (-0,2%), si colloca al 87esimo posto a livello globale (-8 posizioni) e al 24° posto a livello dell’UE (-3). Nel 2022 eravamo al 63esimo posto nel mondo: in due anni abbiamo perso 24 posizioni. Dati Global Gender Gap Report 2024, WEF.
Il monitoraggio della parità di genere è effettuato, a livello esclusivamente europeo, anche dall’European Institute For Gender Equality (EIGE). Dal 2013 l’indice assegna all’UE e agli Stati membri un punteggio da 1 a 100. L’indice generale dei paesi UE a confronto con quello medio UE. Anche in questo caso, l’Italia si colloca al di sotto della media UE27. Il paese più virtuoso è la Svezia, il peggiore la Romania.
In Italia ci sono gap di diverso genere: livelli di istruzione-percorsi di studio-mercato del lavoro e percorsi di carriera
Le donne sono in media più istruite degli uomini. Nel 2023 le laureate sono state il 60 per cento del totale. Anche le performance scolastiche delle donne sono superiori a quelle degli uomini. Ma la cosa più significativa è che questi numeri vengono registrati da AlmaLaurea ormai da più di dieci anni.
Nonostante le differenze di scelta di corsi però, le donne ottengono voti più alti non solo a livello medio, ma in quasi tutte le aree disciplinari. I dati sembrano dunque confutare lo stereotipo che vede le donne come meno analitiche e logiche e, dunque, più adatte a studi umanistici. Tuttavia, le ragazze continuano ad autoescludersi dai cosiddetti percorsi STEM (dall’inglese Science, Technology, Engineering, and Mathematics) perché troppo spesso si identificano in stereotipi che le vedono distanti dalla scienza.
Il gap di competenze legate alla minore presenza di donne nei percorsi educativi STEM che danno accesso ai settori dove risiedono le migliori opportunità lavorative in termini di occupazione, retribuzione e percorsi di carriera.
Come detto, nel 2020, durante la pandemia da COVID-19, molte donne si erano trovate costrette a lasciare il lavoro o a smettere di cercarlo, uscendo dalla forza lavoro. Con il ritorno alla normalità e grazie alla ripresa economica molte lavoratrici hanno avuto la possibilità di rientrare nel mercato.
Sono principalmente le donne non laureate a scontare una minor presenza sul mercato rispetto ai colleghi uomini. Al contrario, le donne laureate con un’occupazione sono più degli uomini.
Sembra comunque esistere una differenza strutturale nel profilo delle donne che scelgono di lavorare o meno. Sembrerebbe infatti che siano prevalentemente le donne non laureate a decidere di non lavorare. Uno dei fattori che contribuisce a questa situazione è probabilmente legato ai differenziali salariali tra chi ha una laurea e chi non ce l’ha. È ragionevole supporre che una donna non laureata, specialmente se neo-madre, possa essere costretta a non lavorare per una scelta di tipo economico.
Non si può non rilevare come gli interventi regolatori possano avere un forte impatto sul comportamento di questo gruppo di lavoratrici. Gli elementi maggiormente impattanti sono, da una parte, il sistema dei sussidi sociali, dall’altra, il meccanismo di determinazione dei minimi salariali e la disponibilità di servizi di supporto alla genitorialità e alla cura dei familiari.
Il lavoro part-time come fattore condizionante
Andando ad analizzare i dati si nota come il tasso di part-time femminile sia cresciuto costantemente dal 2004 al 2020, arrivando quasi al 35 per cento, contro circa il 9 per cento degli uomini. Dal 2020, invece, si osserva un netto calo nel ricorso a questa tipologia contrattuale. Con buona probabilità, il minor ricorso al part-time negli ultimi anni è la diretta conseguenza dell’ampio utilizzo del lavoro in smart-working.
Scomponendo il dato dei differenziali nell’occupazione delle madri, ed analizzandolo per area geografica, le donne che risultano essere più svantaggiate sono quelle del Mezzogiorno dove il tasso di occupazione femminile è inferiore di circa 30 punti percentuali rispetto a quello maschile.
Se le donne vengono pagate meno degli uomini (a causa di discriminazione o del peso del lavoro di cura) e sono più soggette a rapporti di lavoro part-time, allora sarà più probabile che non trovino conveniente iniziare a lavorare a fronte dell’aumento dei costi relativi alla cura della famiglia (nidi, baby-sitter, etc.).
Questa situazione non ha solo riflessi individuali, ma porta con sé conseguenze enormi in termini di perdita economica per la società e l’economia nel loro complesso.

Il gender gap danneggia l’intera società
Il gender gap deve essere considerato come un vero e proprio danno per la nostra società: la disuguaglianza non è solo un problema etico, ma è un freno per la crescita dell’economia. È urgente, una parte, da mettere in atto politiche che supportino in maniera concreta le famiglie e le imprese e, dall’altra, coltivare la cultura della parità di genere non solo nel mercato del lavoro o all’interno delle organizzazioni, ma anche nella sfera educativa, sociale e privata.
Nell’ambito dei percorsi di carriera si parla di segregazione verticale riferendosi al fatto che le donne sono molto meno presenti rispetto agli uomini in posizioni apicali e dirigenziali, rappresentando una piccola minoranza nei management team delle aziende o ai vertici delle organizzazioni politiche e istituzionali. Nello specifico questo fenomeno si può collegare nella lunga permanenza delle donne nei ruoli più bassi delle organizzazioni (a causa del cosiddetto pavimento appiccicoso) oppure nella fattiva difficoltà nell’accesso ad un pieno sviluppo di carriera fino all’apice (il cosiddetto soffitto di cristallo). Ci si riferisce poi al fenomeno della concentrazione femminile in alcuni settori o aree funzionali all’interno delle aziende (soprattutto in funzioni di staff, come ad esempio Amministrazione e Risorse Umane) quando si parla di segregazione orizzontale.
Le donne rappresentino la minoranza tra i ruoli dirigenziali e quadri. La disparità risulta più evidente nel settore privato, mentre se si guarda il dato del mercato nel suo complesso la situazione migliora, segno che, almeno nel settore pubblico, il gap è meno accentuato.
Nell’analizzare il tema carriera non si può evitare di prendere in considerazione la categoria dei cosiddetti top job, ovvero di tutti quei ruoli apicali nelle imprese quotate, in cui la rappresentanza femminile è da anni regolata per legge. Infatti, con la Legge Golfo-Mosca (L. 120/2011), prima, e con la L. 160/2019 poi, il legislatore ha voluto stabilire regole per assicurare una presenza paritaria di entrambi i generi negli organi di amministrazione e controllo delle imprese quotate. Per effetto della normativa, nel 2023 si è raggiunta la percentuale record di donne nei CdA, toccando il 43,1 per cento. Però, scomponendo il dato della composizione dei CdA per genere, si nota che la stragrande maggioranza delle componenti di genere femminile fa parte di questa seconda categoria, con solo il 16,4 per cento di donne in ruoli esecutivi.
Numerosi studi dimostrano, infatti, che le organizzazioni più inclusive che hanno a capo delle dirigenti donne ottengono migliori risultati nella valorizzazione dei talenti, accrescono la reputazione e la responsabilità di impresa, sono più innovative e, infine, ottengono migliori performance finanziarie.Il prezzo che le organizzazioni pagano nel non combattere a sufficienza le disuguaglianze di genere si misura nella mancata crescita e in una riduzione del valore per gli azionisti, esattamente come un Paese perde in innovazione, crescita e competitività.
Generalmente una maggior esperienza accumulata nel proprio lavoro determina livelli retributivi più alti. Il pay gap ha un impatto anche su questa tendenza tanto che il divario retributivo cresce al crescere dell’età: in tutte le classi di età i lavoratori guadagnano più delle lavoratrici superando il 13 per cento nelle classi di età più avanzate.
Anche le rilevazioni del XXIII Rapporto annuale dell’INPS evidenziano che una parte del divario retributivo tra uomini e donne è legata agli effetti diseguali della genitorialità sulle loro carriere. Dopo la nascita di un figlio, i percorsi retributivi si separano: gli uomini mantengono un trend positivo, mentre le donne subiscono una brusca interruzione con una riduzione del reddito del 76% nell’anno della nascita. Al contrario, i padri registrano nello stesso periodo un aumento salariale del 6%. Le retribuzioni delle madri tornano ai livelli pre-maternità solo dopo cinque anni, mentre i padri continuano a progredire, registrando un aumento salariale complessivo che raggiunge quasi il 50% a sette anni dalla nascita.
Nonostante ci sia un grado di insoddisfazione femminile più marcato per tutte le componenti, le dimensioni che registrano un gap maggiore (0,8 punti) sono relative alla percezione di equità interna, alla meritocrazia nella gestione delle retribuzioni e alla relazione tra contributo individuale e retribuzione.
Le donne vedono come priorità di intervento nelle loro aziende il livello della retribuzione fissa (circa il 66 per cento), la possibilità di sviluppo di carriera (circa il 42 per cento) e la flessibilità oraria (circa 46 per cento).
Cosa fare?
I dati parlano da soli: le donne devono prendersi più cura della famiglia e della casa, lavorano di meno, sono più spesso sottoposte a part-time involontari, le loro carriere lavorative non sono libere di evolvere come loro vorrebbero e, dulcis in fundo, a parità di ruolo vengono pagate meno dei colleghi uomini. Le scelte lavorative delle donne sono viziate da una discriminazione che opera nei loro confronti su tutti gli aspetti della vita economica e sociale.
Non basta realizzare parità retributiva, ma occorre lavorare su una molteplicità di processi che, insieme, possono fare davvero la differenza e contribuire a cambiare la cultura delle persone.
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